Noctes Atticae (Libro 6, Paragrafo 18) | AULO GELLIO

Versione originale in latino

1 Iusiurandum apud Romanos inviolate sancteque habitum servatumque est. Id et moribus legibusque multis ostenditur, et hoc, quod dicemus, ei rei non tenue argumentum esse potest. 2 Post proelium Cannense Hannibal, Carthaginiensium imperator, ex captivis nostris electos decem Romam misit mandavitque eis pactusque est, ut, si populo Romano videretur, permutatio fieret captivorum et pro his, quos alteri plures acciperent, darent argenti pondo libram et selibram.

3 Hoc, priusquam proficiscerentur, iusiurandum eos adegit redituros esse in castra Poenica, si Romani captivos non permutarent. 4 Veniunt Romam decem captivi. 5 Mandatum Poeni imperatoris in senatu exponunt. 6 Permutatio senatui non placita. 7 Parentes cognati adfinesque captivorum amplexi eos postliminio in patriam redisse dicebant statumque eorum integrum incolumemque esse ac, ne ad hostes redire vellent, orabant. 8 Tum octo ex his postliminium iustum non esse sibi responderunt, quoniam deiurio vincti forent, statimque, uti iurati erant, ad Hannibalem profecti sunt. 9 Duo reliqui Romae manserunt solutosque esse se ac liberatos religione dicebant, quoniam, cum egressi castra hostium fuissent, commenticio consilio regressi eodem, tamquam si ob aliquam fortuitam causam, issent atque ita iureiurando satisfacto rursum iniurati abissent. 10 Haec eorum fraudulenta calliditas tam esse turpis existimata est, ut contempti vulgo discerptique sint censoresque eos postea omnium notarum et damnis et ignominiis adfecerint, quoniam, quod facturos deieraverant, non fecissent. 11 Cornelius autem Nepos in libro exemplorum quinto id quoque litteris mandavit multis in senatu placuisse, ut hi, qui redire nollent, datis custodibus ad Hannibalem deducerentur, sed eam sententiam numero plurium, quibus id non videretur, superatam; eos tamen, qui ad Hannibalem non redissent, usque adeo intestabiles invisosque fuisse, ut taedium vitae ceperint necemque sibi consciverint.

Traduzione all’italiano

Un giuramento era considerato presso i Romani come qualcosa di sacro e inviolabile. Ciò è evidente per molti dei loro costumi e delle loro leggi, e ciò che racconterò possa essere considerato un argomento non debole.
Dopo la battaglia di Canne, Annibale, comandante dei Cartaginesi, scelse dieci prigionieri Roman e li mandò in città, istruendoli e concordando che, se fosse andato bene, avrebbero fatto uno scambio di prigionieri, e che per ogni prigioniero che una delle parti avesse ricevuto in più rispetto all’altra, si sarebbe dovuta pagare una libbra e mezza d’argento. Prima che andassero, li obbligò di giurare che sarebbero tornati all’accampamento punico, se i Romani non avessero accettato lo scambio. I dieci prigionieri arrivano a Roma. Comunicano il messaggio dell’Imperatore Cartaginese al Senato. Il Senato rifiutò lo scambio. I genitori, parenti e conoscenti dei prigionieri, fra gli abbracci dichiararono che erano tornati alla loro terra natale del postliminium e che la loro condizione di indipendenza era completa e inviolabile; inoltre li pregarono di non pensare di tornare dal nemico. Allora otto dei loro replicarono che non avevano alcun diritto di postliminum, dato che erano legati da un giuramento e subito tornarono da Annibale, come avevano promesso di fare. Gli altri due rimasero a Roma, dichiarando che erano stati rilasciati e liberati dal loro obbligo perché, dopo aver lasciato l’accampamento del nemico, erano lì tornati (a Roma) come per caso, ma in realtà con l’intenzione di ingannare e avendo così tenuto la lettera del giuramento, erano dovuti ritornare senza aver prestato giuramento. Questa loro trovata disonorevole fu considerata così vergognosa, che furono da tutti biasimati e disprezzati; e dopo i censori li punirono con tutte le possibili multe e segni di disonore, poiché non avevano fatto ciò che avevano giurato.

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